Il presente lavoro di ricerca ha ad oggetto la criminalizzazione delle migrazioni nell'èra del cosiddetto populismo, e in particolare del populismo penale. Invero, negli ultimi anni si è assistito ad una espansione incontrollata del potere punitivo che, sotto la pressione di un bisogno collettivo di sicurezza, ha condotto ad una vera e propria disumanizzazione del diritto penale (e punitivo-amministrativo), nel duplice significato che quest’ultima espressione rivestiva secondo la giurispoeta Mireille Delmas-Marty: "quello di un diritto penale che si sta deumanizzando, e quindi deumanizzato, in quanto sempre più distante dai principi dell'umanesimo giuridico; e quello di un diritto penale deumanizzante, in quanto riduce alcuni esseri umani [...] al rango di strumenti o mezzi al servizio di un fine". I migranti sono infatti il bersaglio principale di una crescente cultura della paura e di un ritornello politico e mediatico volto a stigmatizzarli come potenziali criminali. Come uno specchio, la politica migratoria e la politica criminale ci restituiscono l'immagine di una società dominata dalla paura: la prima perché - come ha scritto Abdelmalek Sayad - è «lo Stato che pensa se stesso pensando l'immigrazione»; la seconda «perché ogni incriminazione [...] si basa su una scelta di valori o di interessi, il cui rispetto è ritenuto essenziale per il mantenimento dell'ordine sociale» (Xavier Pin). La tesi è suddivisa in tre capitoli. Il capitolo I descrive il contesto emotivo, politico e socio-economico in cui si è sviluppato il populismo penale e mira a decostruire la retorica securitaria volta ad assimilare il migrante al criminale tout court. L'analisi del capitolo II si concentra sulla critica di questo "diritto penale della paura-esclusione" che ha tratto forza e legittimazione dalla narrazione deumanizzante e criminalizzante attorno alle migrazioni. Si dimostrerà, in particolare, che il diritto penale funge da frontiera, incarnando la sovranità e il relativismo dei valori nazionali e agendo come arma di esclusione e deumanizzazione delle persone migranti. La parola frontiera evocherà altresì la zona di confine in cui opera la criminalizzazione degli stranieri indesiderabili (così come degli attori umanitari che soccorrono i migranti in pericolo): si tratta, in effetti, di una zona grigia, in cui al diritto penale si sovrappone, in modo sempre più crescente, un uso punitivo del diritto amministrativo, senza che, tuttavia, il legislatore rinunci alla forza stigmatizzante e deumanizzante del primo: lo dimostra, ad esempio, il délit (in Francia) o la contravvenzione (in Italia) dell’ingresso illegale, che costituisce la bandiera del populismo penale escludente. Si vedrà anche in che misura il processo di ampliamento della nozione di nemico abbia finito per inglobare gli attori umanitari, sulla base di una “narrazione disumanizzante dell'umano” ispirata allo stereotipo delle ONG come fattori di attrazione. Lungo i sentieri della repressione della solidarietà, ci si imbatterà in forme penali di criminalizzazione (mediante, ad esempio, l'abuso del reato di favoreggiamento dell'immigrazione c.d. clandestina), forme para-penali (quali, i fermi amministrativi delle navi umanitarie) e forme inedite (mediante, ad esempio, la contestazione dei reati di inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità e di invasione arbitraria di terreni o edifici). Il vero è che dietro questo incessante ricorso al diritto punitivo si nasconde l’incapacità di governare razionalmente i fenomeni migratori. Come verrà spiegato nel capitolo III e come ha insegnato la giurista Mireille Delmas-Marty, lo Stato securitario è una pura illusione. La transizione verso uno Stato solidale è l'unica "bussola dei possibili", l'unica rotta da seguire se vogliamo "salvarci insieme". Ci si chiederà se e in che misura i giudici abbiano contribuito (e possano contribuire in futuro) a una rifondazione dei poteri e del diritto penale su una rinnovata etica della solidarietà. This thesis deals with the criminalisation of migration in the Age of the so-called populism, in particular "penal populism". Indeed, recent years have seen an uncontrolled expansion of punitive power which, under the pressure of a collective need for security, has led to a proper dehumanisation of criminal law (as well as administrative-punitive law), in the dual meaning that the jurispoet Mireille Delmas-Marty ascribed to this expression: "that of a criminal law that is dehumanising, and thus dehumanised, insofar as it is increasingly distant from the principles of legal humanism; and that of a dehumanising criminal law, insofar as it reduces certain human beings [...] to the rank of instruments or means at the service of an end". Indeed, migrants are the main target of a growing culture of fear and a political and media refrain aimed at stigmatising them as potential criminals. Like a mirror, migration policy and criminal policy disclose the image of a society dominated by fear: the former because - as argued by Abdelmalek Sayad - "the State [...] thinks of itself by thinking of immigration"; the latter "because every incrimination [...] is based on a choice of values or interests, respect for which is considered essential for maintaining social order" (Xavier Pin). The thesis is divided into three parts. Chapter I describes the emotional, political and socio-economic context in which penal populism has developed, and tries to deconstruct the securitarian rhetoric aimed at representing migrant as a criminal. Chapter II critically analyses this 'criminal law of fear-exclusion' that has drawn strength and legitimacy from the dehumanising and criminalising narrative on migration. In particular, it will be shown that criminal law acts as a border, embodying the sovereignty and relativism of national values and acting as a weapon of exclusion and dehumanisation of migrants. The word border will also evoke the border zone in which the criminalisation of undesirable migrants (as well as humanitarian actors who rescue them) works: a grey zone, in which a punitive use of administrative law overlaps with criminal law, albeit the legislator does not renounce the stigmatising and dehumanising force of the latter: this is shown, for example, by the délit (in France) or the contravvenzione (in Italy) of illegal entry, which constitutes the flag of exclusionary criminal populism. It will be shown to what extent the process of broadening the notion of enemy has ended up encompassing humanitarian actors, on the basis of a "dehumanising narrative of the human" inspired by the stereotype of NGOs as pull factors. Along the paths of the repression of solidarity, we will come across criminal forms of punishment (through, for example, the abuse of the crime of aiding and abetting illegal entry), para-criminal forms (such as the administrative detention of humanitarian ships) and unprecedented forms (through, for example, the charge of the crimes of non-compliance with the measures of the Authority and the arbitrary invasion of land or buildings). As a matter of fact, behind this abuse of punitive law lies the inability to rationally govern migratory phenomena. As it will be explained in Chapter III and as argued by the jurist Mireille Delmas-Marty, the Securitarian State is a mere illusion. The transition towards a Solidary State is the only 'compass of the possible', the only path to be followed in order to 'save ourselves together'. The question arises as to whether and to what extent judges have contributed (and may contribute in the future) to a refounding of powers and criminal law on a renewed ethic of solidarity.