I bisogni socio-sanitari della popolazione, in questi anni, si sono fatti complessi e articolati. Per rispondere a questi bisogni occorre che i professionisti sanitari lavorino in sinergia, condividendo informazioni, obiettivi e risorse. Le relazioni collaborative tra i professionisti sanitari diventano quindi determinanti per rispondere ai bisogni dei pazienti, dal momento che una singola disciplina/specializzazione non è in grado di farlo. La revisione della letteratura relativa alla collaborazione interprofessionale (IPC) ha messo in evidenza alcuni aspetti fondamentali. La IPC è descritta come un processo interattivo o interpersonale, che rappresenta una relazione complessa tra più discipline. Le ricadute di una IPC efficace sono ampiamente positive e si evidenziano sotto diversi punti di vista: paziente (migliori standard di cura), professionisti (diminuzione del burnout e maggior soddisfazione professionale), organizzazione (riduzione dei costi). La revisione della letteratura ha inoltre fatto emergere una serie di studi che si riferiscono alla percezione e all’atteggiamento dei professionisti e degli studenti rispetto alla IPC. L’eterogeneità dei risultati e degli strumenti utilizzati ci ha indotto a condurre una meta-analisi sulle misure della pratica collaborativa tra medici e infermieri. I risultati indicano che, nel complesso, gli infermieri mostrano una maggiore predisposizione verso l’IPC dei medici, indipendentemente dal Paese in cui lo studio è stato condotto. Questo dato indica quindi che i medici sarebbero più riluttanti a impegnarsi in una pratica collaborativa efficace. Partendo da questa considerazione e valutando che medici e infermieri, pur collaborando in una stessa unità operativa, continuano ad appartenere a gruppi professionali differenti (con diverso status, diverso potere, diverse norme di gruppo), si è voluto condurre una ricerca tesa ad analizzare la collaborazione interprofessionale considerandola come un processo intergruppi influenzato da diverse variabili, come l'identità sociale (professionale), le differenze di status e le credenze circa queste differenze. Per raggiungere questo obiettivo sono stati condotti due studi complementari. Il primo studio ha cercato di verificare se e come il contatto intergruppi (interprofessionale) creatosi durante le esperienze di tirocinio potesse modificare gli stereotipi professionali (e, di conseguenza, incidere sul processo di formazione dell’identità professionale) e su come questi, a loro volta, potessero incidere sull'atteggiamento verso una formazione interprofessionale. Questo primo studio, di tipo longitudinale, è stato quindi rivolto agli studenti di infermieristica, agli studenti di medicina e agli studenti OSS (Operatori Socio Sanitari) che hanno risposto ad un questionario in due momenti diversi: prima di effettuare il tirocinio e alla fine del periodo di tirocinio. A un primo risultato il tirocinio sembra essere un elemento che migliora l’atteggiamento degli studenti nei confronti della formazione interprofessionale (IPE). In secondo luogo, risulta però che gli stereotipi ambivalenti e il loro effetto sulle relazioni intergruppo sono particolarmente importanti per le relazioni infermiere-medico, sia fra i professionisti già formati, sia fra gli studenti. In accordo con la letteratura, anche nel nostro studio, infermieri e medici sono fondamentalmente raffigurati con stereotipi ambivalenti: gli infermieri come communal, ovvero con maggiori competenze relazionali, ma meno agentici. I medici, al contrario, sono rappresentati come agentici, ovvero con maggiori competenze decisionali, leadership e autonomia, ma con minori competenze relazionali e attitudine al lavoro di gruppo. Sebbene i risultati confermino l’ipotesi iniziale per la quale il tirocinio aumenta i valori di agenticità, tuttavia le analisi hanno mostrato come il tirocinio determini anche un lieve aumento dei valori di comunalità percepita. Quanto all’identità professionale, essa non emerge come un fattore di moderazione nell’atteggiamento verso la collaborazione con le altre figure professionali (come misurato dopo il tirocinio). Ciò sembra suggerire che gli intervistati non considerino quest’ultima come un modus operandi della professione. Infine, i risultati dell’analisi relativi all’influenza della stereotipizzazione delle professioni sull’atteggiamento verso la IPE mostrano che una maggior agenticità non è predittiva di un atteggiamento meno positivo, così come una maggior comunalità non è predittiva di un atteggiamento più positivo. Questo sembra suggerire che l’atteggiamento verso una formazione comune possa essere influenzato da altri fattori oltre alle rappresentazioni stereotipiche delle diverse professioni. Per il secondo studio invece, occorre considerare il presupposto per il quale i gruppi dei professionisti presenti in un sistema organizzativo di una qualsiasi Azienda Sanitaria sono gerarchicamente organizzati e possiedono status ben definiti. In particolare, possiamo riconoscere nei medici il gruppo con lo status più elevato, nei professionisti sanitari (es. infermieri) i gruppi con uno status intermedio e, infine, nel gruppo degli OSS lo status più basso. Pertanto il secondo studio ha voluto indagare in che modo l’atteggiamento verso la collaborazione professionale sia influenzato dalla stabilità/instabilità delle differenze di status e dai processi legati all’identità professionale. E' stata quindi realizzata una ricerca quasi sperimentale in cui medici, infermieri e OSS sono stati indotti a credere a una prossima condizione di stabilità/instabilità tra gli status dei gruppi professionali. Rispetto all’atteggiamento verso la collaborazione, i dati hanno mostrato, in accordo con quanto ipotizzato, valori maggiori per i gruppi con status più basso: i medici hanno registrato i valori più bassi, gli infermieri valori intermedi e gli OSS i valori più alti. Queste differenze, però, appaiono indipendenti dalla stabilità/instabilità delle differenze di status, non confermando così l’ipotesi di un aumento dell’atteggiamento collaborativo nella condizione di instabilità verso l’alto. Inoltre, i valori di legittimità registrati nella condizione di stabilità o instabilità verso il basso sembrano suggerire come i medici tendano a considerare l’attuale gerarchia professionale come giusta, legittima e desiderabile, tendendo così a preservare il proprio status gerarchico nei confronti degli altri gruppi. Rispetto all’identificazione, i dati sembrano confermare solo in parte quanto già indicato in letteratura, ovvero che i membri di un gruppo storicamente e socialmente elevato (come i medici) presentino un maggior grado di identificazione. Soltanto gli OSS, infatti, presentano una significativa differenza rispetto agli altri gruppi, mentre di fatto medici e infermieri presentano un grado di identificazione pressoché identico. In conclusione, i risultati rilevati in questo studio rispetto all’atteggiamento verso l’IPE (primo studio) sono sicuramente incoraggianti, ma per poter rendere efficace il processo di avvicinamento tra le professioni e ridurre i bias tra i professionisti , incrementando così la loro collaborazione, occorre che i tirocini siano preceduti e seguiti da momenti di laboratorio e/o briefing e debriefing in cui poter realmente valutare le migliori strategie di intervento interdisciplinare e far in modo che le professioni si possano conoscere tra loro. In caso contrario, i tirocini potrebbero limitarsi a configurarsi come situazioni inter-professionali nelle quali vengono riproposti comportamenti stereotipati ancorati a visioni stereotipate delle altre figure professionali. Rispetto alla collaborazione interprofessionale, i dati suggeriscono - in accordo con la letteratura - che gli infermieri hanno un atteggiamento più favorevole alla collaborazione e che le condizioni di instabilità possono avere, in maniera indiretta conseguenze su tale variabile. I dati confermano a più livelli che le variazioni di status potrebbero determinare modifiche dell’atteggiamento verso la collaborazione e che a risentire di questi effetti sono maggiormente i medici e gli OSS. Seppur con diversi limiti, questo studio potrebbe indicare che la valutazione delle relazioni tra professionisti sanitari attraverso la Teoria dell’Identità Sociale (TIS) possa essere una valida chiave di lettura. The social health needs of population, in recent years, have become complex and articulated. To meet these needs it is necessary that healthcare professionals work together, sharing information, objectives and resources. Therefore, a collaborative relationship between health professionals becomes crucial to meet the needs of the patients, while a single discipline/specialization cannot be able, by itself, to reach that goal. The literature review on the topic “interprofessional collaboration” (IPC) has highlighted some fundamental aspects. The IPC is described as an interactive or interpersonal process, which represents a complex relationship between multiple disciplines. The consequences of an effective IPC are largely positive and blatant from different points of view: for the patients (a better standard in care), the professionals (a reduced burnout and an increased job satisfaction) and healthcare organizations (cost reduction). We found a certain number of studies regarding perception and attitude of professionals and students towards the IPC. Owing to the apparent heterogeneity of results and operational tools, we decided to conduct a meta-analysis on the measures of collaborative practice among doctors and nurses. Overall, the results show that nurses are more well disposed than physicians towards IPC, regardless of the country where the study was conducted. This indicates that physicians could be more reluctant to engage in an effective collaborative practice. Starting from this observation - and considering that physicians and nurses , when working together in the same unit/ward, are still belonging to different professional groups (with different status, power, group norms) - we chose to conduct two complementary studies, aiming to analyze the interprofessional collaboration as an intergroup process influenced by several variables, such as social (professional) identity, differences in status, and beliefs about these differences. The first study was directed to verify if and how the intergroup (interprofessional) contact during training experience could modify the professional stereotypes (thus affecting the professional identity formation) and how those stereotypes - in turn - could have an effect on the attitude towards interprofessional education. This first longitudinal study was designed for nursing students, medical students and OSS students (a lower category of healthcare workers) who answered to a questionnaire at two different times: before and at the end of their training period. The first results suggest that the training appears to be improving students' attitudes towards interprofessional training (IPE). In the second place, ambivalent stereotypes and their effect on intergroup relations result particularly important in the nurse-physician relationship, among trained professionals as well as among students. In accordance with the literature, in our study nurses and physicians are basically depicted with ambivalent stereotypes: nurses as communal (i.e. with better relational skills), but less agentic. Physicians, on the contrary, are represented as agentic (with wider decision-making skills, leadership and independence), but with less social skills and team work attitude. Although the results confirm the initial hypothesis of training as increasing the values of agenticity, nevertheless analyses have shown that the training also causes a slight increase in the perceived values of communality. With respect to the professional identity, it seems it doesn’t moderate the attitude towards collaboration with other professionals (as measured after the internship). This seems to suggest that respondents do not consider collaboration as a modus operandi of the profession. Finally, the results about the influence of stereotypes on the attitude towards IPE show that a wider agenticity is not predictive of a less positive attitude, as well as a larger communality is not predictive of a more positive attitude. This seems to suggest that attitudes toward a common training can be influenced by other factors than just the stereotypical representations of different professions. As to the second study, it is necessary to start from the premise that professional groups in a healthcare system are hierarchically organized and have well-defined status. In particular we can recognize the medical group as the group with the highest status, health professionals (e.g. nurses) as intermediate, and finally the OSS group as the one with the lower status. The second study was aimed to investigate how the attitude towards professional collaboration is influenced by the stability/instability of status differences and by professional identity related processes. It’s been performed a quasi-experimental study in which physicians, nurses and OSS were led to believe in a forthcoming condition of stability/instability in the statuses of the different professional groups. As to the attitude towards collaboration, in accordance with the initial hypothesis, data showed higher values in the groups with lower status: physicians have registered the lower values, nurses average values, and OSS the highest values. These differences, however, appear to be independent from the stability/instability of status differences, thus not confirming the hypothesis of an increasing attitude to collaboration in presence of a condition of instability upwards. In addition, the values recorded in a condition of stability or instability downwards seem to suggest that physicians tend to regard the current professional hierarchy as fair, legitimate and desirable, thus tending to preserve their hierarchical status. With respect to identification, data seem to confirm only partially what is found in literature, where the members of a group with historically and socially higher status (like physicians) are stated to present a higher degree of self-identification. Comparing the three professional groups, only the OSS group presents a statistically significant difference, while de facto physicians and nurses have almost identical levels of identification. In conclusion, the results of this study with respect to the attitude towards the IPE (first study) are certainly encouraging, but it’s clear that in order to improve the collaboration between professional groups (by making effective the process of rapprochement and reducing the bias among professionals) it is necessary that internships are preceded and followed by moments of laboratory and/or briefing and debriefing, to evaluate the best interdisciplinary intervention strategies and make sure that the professions could really get to know one another. Otherwise, trainings could simply be seen as inter-professional situations where stereotypical behaviors are repeated, hooked to stereotypical views of the other professionals. With respect to interprofessional collaboration, data suggest - in accordance with literature - that nurses have a more positive attitude to collaboration and that the conditions of instability can have, indirectly, an impact on this variable. The data give a multi-level confirm: status changes may cause an attitude change towards collaboration. Physician and OSS seem to be more likely to suffer this effect. Albeit with some limitations, this study may indicate that the evaluation of relations between health professionals through the Social Identity Theory (SIT) could be a valid key to interpretation.